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claustrofobia

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CLAUSTROFOBIA


L’inizio della vicenda che sto per raccontare fu di per sé banale, ma l’esito fu per me drammatico. Ero andato , un venerdì pomeriggio sul tardi, a prelevare un libro dal magazzino della biblioteca dove lavoro come distributore.
Senza chiavi, perché le porte d’ingresso sono state lasciate aperte, entro nel magazzino, prendo una copia del suddetto volume ( lo ricordo ancora: l’Asino d’oro di Apuleio in una pregevole edizione rilegata ) e rapidamente mi appresso all’uscita costituita da due porte: una porta a vetri blindata con maniglia interna di sicurezza (“antipanico”, come la chiamano gli esperti) e un cancello in ferro con sbarre verticali. Chiudo alle mie spalle la prima porta, senza accorgermi che, nel frattempo, il cancello è stato chiuso a chiave; faccio per tornare indietro, ma anche la prima porta ha la serratura bloccata. Rimango così intrappolato in uno spazio angusto di pochissimi metri quadri, molto peggio di un carcerato in una cella di massima sicurezza. Non dispongo di cellulare, strumento con il quale ho sempre avuto un rapporto “problematico”.
Il panico comincia ad attanagliarmi: è tardi, è la fine della settimana e la biblioteca è deserta di personale e di frequentatori che possano udire le mie grida. Mi si prospetta un fine settimana (venerdì sera e notte, tutto il sabato – giorno in cui nessuno lavora – e tutta la domenica) recluso in uno spazio ridottissimo. Sono le sette di sera e, in preda all’angoscia, comincio inutilmente a scuotere il ca ncello, invocando a gran voce l’aiuto di qualcuno. Poco dopo, un fornitore parcheggia un furgone nel cortile antistante, sente le mie urla, si volta perplesso ma non riesce a individuarne la provenienza. Risale sul furgone e riparte a gran velocità, convinto forse di aver avuto un’allucinazione acustica. Nel frattempo si sono fatte le otto, smetto di gridare e mi preparo a passare una notte e due interi giorni in quell’angusta prigione.
Mi sono dimenticato di dire che soffro di claustrofobia, in forma grave e patologica. Questa mia “malattia” si manifesta con alterazioni della percezione visiva, acustica e talora anche tattile: tutto ciò mi conferisce una sensibilità diversa, che mi fa comprendere il senso ultimo delle cose, oltre la realtà apparente e gli epifenomeni che costituiscono il mondo in cui vivono le persone “normali”. Ma il contrasto tra i due mondi, che io continuo ad avvertire anche durante le mie “crisi”, genera in me angoscia e dissociazione. Per questo motivo gli psichiatri che mi hanno visitato mi raccomandano di evitare gli spazi ristretti e/o privi di sufficiente illuminazione, come ascensori, cabine telefoniche, metropolitane, stanzini, sgabuzzini, sottoscala, gabinetti troppo piccoli o senza finestre, cantine et similia.
Mi rassegno e mi adagio sul pavimento in posizione fetale, sperando nell’arrivo di qualche guardia notturna che ponga fine al mio incubo. Ma le ore passano e nessuno si fa vedere. Allora, non riuscendo a dormire, comincio a fantasticare, perdendo il contatto col mondo reale e la mia concreta, infelice situazione.
Dapprima, mi affiora alla mente il ricordo di una vecchia e intensissima amicizia con una donna, Marisa, all’incirca mia coetanea. L’avevo conosciuta in una di quelle feste che si fanno tra amici e colleghi, per festeggiare non rammento quale ricorrenza. Fra di noi era nato un vincolo che non esiterei a definire affettuoso, fatto di letture comuni: compravamo e ci scambiavamo romanzi e racconti di Gide, Camus, Simenon, Kafka, Mann, Pirandello, Moravia, Sciascia, solo per citarne alcuni. La nosta amicizia, che si esprimeva soprattutto in lunghe conversazioni, era intessuta di situazioni letterarie, popolata di personaggi immaginari, alterata da impressioni estetiche. A tal punto che un certo giorno il nostro rapporto si interruppe, poiché non riuscivamo più a distinguere la realtà dalla fantasia, ciò che avevamo letto da ciò che avevamo vissuto, in una confusione di eventi, personaggi, astrazioni romanzesche che non ci consentiva più di condurre una vita normale. Lei mi attribuiva le intenzioni e i sentimenti di un dato personaggio romanzesco ed io facevo altrettanto, ingenerando sospetti, gelosie, rancori immotivati. Un’amicizia insolita, sospesa com’era tra invenzione e realtà, che però non poteva durare; e infatti non durò più di tre anni. Il fatto è che i personaggi e gli autori di molte nostre letture ci accompagnano per tutta la vita, intrattengono con noi un sommesso colloquio quotidiano, condizionando i nostri sentimenti e le nostre passioni, in poche parole plasmano la nostra personalità.
Del resto, chi ha vissuto l’esperienza di trascorrere in una biblioteca pubblica (questi grandiosi templi innalzati al culto delle memorie collettive) qualche ora di notte, al buio, senza presenze umane e nel più assoluto silenzio, sa che i libri emanano strane concrezioni spettrali, come ectoplasmi che, liberati dai loro involucri cartacei , si librano in aria in una luce fluorescente: sono gli autori che rivivono la loro vita anche a distanza di centinaia e migliaia d’anni, liberandosi dalla loro prigione di carta. Credo che questo fenomeno, chimico e materiale, illustri in modo efficace l’idea proustiana che lo scrittore (e, più in generale, l’uomo) possa superare il confine labile tra vita e morte, conquistando l’immortalità nei neuroni preposti alla memoria dei posteri. Tutto ciò avviene per un processo che non ha nulla di metafisico e trascendentale, con buona pace di tutte le teorie sull’ anima e la sua immortalità.
A riprova di quanto detto sopra, devo aggiungere che dall’angolo visuale della mia prigione, riuscivo a leggere – senza alcuno sforzo – attraverso i vetri della porta i titoli dei volumi immersi nell’oscurità completa del magazzino: l’Iliade, l’Odissea, l’Orlando furioso, Don Chisciotte ( che è – al di là delle avventure del protagonista – un grande libro sui libri e sul potere che essi esercitano sul lettore) e tanti altri titoli, tutti illuminati da una strana fluorescenza; anche questo fatto dimostra quanto sia intensa la “vita” notturna all’interno di una biblioteca.
Tra queste e altre fantasticherie e sensazioni passai la notte del venerdì e tutto il sabato. La domenica i miei pensieri si incupirono: ripensai con inquietudine a quel racconto claustrofobico di Edgar Allan Poe Le esequie premature che narra di persone sepolte vive e a quell’altro , ancora più allucinato, Il gatto nero, storia di un’ossessione,di un delitto atroce e di un cadavere murato nella parete di una cantina; racconti che avevo letto di sera da ragazzo, precludendomi la possibilità di dormire la notte.
Intanto le ossa incominciano a farmi male e il freddo del mese di marzo mi lascia in tutto il corpo una sensazione di umidità e di ipotermia. Inoltre i bisogni fisiologici, stimolati dalla paura, mi hanno lordato indecorosamente i pantaloni.
Una cornacchia di dimensioni abnormi mi si avvicina fissandomi da dietro il cancello; i suoi occhi neri si dilatano all’inverosimile assumendo un’espressione minacciosa. Alla cornacchia si aggiunge un gabbiano ancora più gigantesco con intenzioni tutt’altro che pacifiche. Senza evocare Gli uccelli di Hitchcock, ho letto da qualche parte che questi sono uccelli rapaci, che si nutrono volentieri anche di carogne e che arrivano ad aggredire l’uomo, quando hanno sentore di morte. Mi rannicchio il più lontano possibile dal cancello e aspetto che se ne vadano, attratti da altro genere di cibo.
Ancora una giornata di incubi, ancora una notte di sensi alterati, ossessionato sempre di più dal pensiero della morte imminente.
Finalmente il lunedì mattina, sul presto, si avvicina e apre il cancello l’addetto alle pulizie e, vedendomi rannicchiato in un angolo come un cane abbandonato, mi dice: “ Ehi, che ci fa lei qui?”. Io mi avvento su di lui con calci e pugni, urlando come un ossesso: “Disgraziato! Assassino! Mi volevi uccidere!”.
Di quel che accadde subito dopo non ricordo più nulla, se non il sibilo di una sirena, quattro braccia robuste che mi afferrano e – giuro – le voci beffarde di Dino Campana e Alda Merini, due poeti che hanno conosciuto l’esperienza dell’internamento psichiatrico, che mi sussurrano all’orecchio: “Ci vediamo presto”.

Ho scritto queste brevi note sul lettino di una clinica psichiatrica, dove sono ricoverato da un paio di settimane. Ai bordi del lettino, sufficientemente stretto per abituare il paziente a un sostanziale immobilismo, vi sono ancora gli anelli, vagamente ammonitori, cui venivano agganciate le cinghie di contenzione, oggi proibite dalla legge Basaglia. Quasi ogni giorno una équipe di medici mi ha visitato, posto domande, ascoltato, auscultato, misurato ( anche di notte) la pressione arteriosa, “picchiettato” col martelletto per saggiare i riflessi, somministrato farmaci e sedativi...Insomma, un autentico supplizio. Come se non bastasse tutto quello che avevo passato. Alla fine sulla mia cartella clinica ho letto il seguente, burocratico, inesorabile verdetto conclusivo: “Il paziente è affetto da sindrome allucinatoria di origine claustrofobica con spiccate pulsioni aggressive”. Il duro referto medico rafforza in me l’amara convinzione che l’Istituzione psichiatica sia una”trappola”, da cui è assai difficile venire fuori. Proprio come scriveva Alda Merini.
Ieri infine, dopo anni che non si faceva sentire, ho ricevuto l’inattesa telefonata della mia vecchia amica Marisa. E’ stata molto affettuosa, mi ha chiesto come mi sentivo, che cure mi facevano, come mi trattavano, poi ha aggiunto quasi sussurrando: “In tutti questi anni ho letto molti libri e ogni volta che leggevo un libro pensavo a te; così li ho messi tutti da parte in uno scaffale della mia libreria perché anche tu li potessi leggere. Mi raccomando, fai presto a guarire. Ti aspetto”.
Allora, finalmente, ho visto una luce in fondo al tunnel.

Alberto Rizzo

 giuliano - 14/11/2010 20:26:00 [ leggi altri commenti di giuliano » ]

Davvero molto carino!!

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